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Pedagogia interculturale ed azione educativa
Stefano Vitale (CEMEA Piemonte)
Che sia un tema urgente è chiaro. Che sia anche alla moda non c’è dubbio.Ma meno scontato è che si ragioni sul significato da attribuire, in campo pedagogico, all’aggettivo "interculturale". Ed ancor meno quali siano gli obiettivi da perseguire per far entrare la dimensione interculturale nella pratica educativa quotidiana. I CEMEA rappresentano un movimento educativo internazionale che per sua propria natura ha da sempre cercato di riflettere ed agire su tali questioni. Di recente a Torino, il gruppo piemontese ha svolto un seminario di studi proprio su queste tematiche, dal quale sono emerse indicazioni interessanti. In primo luogo partiamo da alcune precisazioni di ordine generale individuando una definizione di "cultura" precisa ed elastica al tempo stesso. Per chi si occupa di "intercultura" soprattutto attraverso la formazione, ovvero un campo che mette in gioco le relazioni tra l’individuo, gli altri ed un ambiente, ci pare che una definizione di tipo psico- antropologico possa fornirci delle indicazioni utili. In questa prospettiva la cultura viene intesa come un insieme di sistemi, di significati propri ad un gruppo o un sottogruppo, un insieme di significati predominanti che appaiono come valori dando vita a regole e norme che il gruppo si sforza di trasmettere per consolidare la sia particolarità. La cultura è dunque l’espressione del senso "intenzionale", nell’accezione data da Husserl, che il gruppo attribuisce a se stesso ed alla sua relazione con l’ambiente esterno. Ma il senso esiste solo attraverso la presenza di forme e strutture - gesti, suoni, colori, oggetti, parole - che mediano gli elementi del contesto che entrano in relazione. La cultura si configura quindi come insieme delle forme immaginarie/simboliche che mediano le relazioni di un soggetto con se stesso e gli altri e reciprocamente come insieme delle forme che mediano il contesto col soggetto. Da qui la definizione di "interculturalità" come insieme dei processi (psichici, relazionali, gruppali, istituzionali) generati dalle interazioni tra diverse culture in un rapprto di scambio e nella prospettiva di salvaguardare una relativa identità culturale dei partner in relazione, più o meno occasionale. Nel nostro contesto di movimento impegnato nella formazione degli adulti e dei giovani in prospettiva interculturale questo passaggio dalla cultura all’interculturalità è essenziale si dovrebbe potersi svolgere attraverso un processo. E’ individuabile infatti, a partire dalle nostre esperienze, un percorso di formazione interculturale più generale, che si snoda, schematicamente, attraverso 4 fasi : 1) Dapprima il soggetto si esprime nel proprio codice e messo a confronto con un nuovo codice, diverso dal proprio, non solo tende a "restare sulle sue posizioni", ma cerca di tradurre questo nuovo codice nel prorpio codice abituale. E’ un normale procedimento di assimilazione del nuovo a ciò che è noto. 2) Poi, ci si rende conto che il proprio codice non è adatto ad espreimere appieno l’altro e la sua complessità. Interviene una momento di crisi, di rottura. Questa ha comunque una dimensione positiva : non si va in crisi se non ci si accorge della inadeguatezza del proprio codice. 3) Dal disequilibrio si passa poi a cercare delle possibili mediazioni teantando di creare simboli di unione tra i due codici. In questa fase c’è la consapevolezza della relatività dei due codici. E c’è la possibilità di mettere in discussione, anche profondamente, il proprio codice. Anzi, ci sentiamo di dire che è proprio lo "scontro" interculturale che può favorire l0analisi critica della propria cultura. 4) In questa fase si cerca di affrontare la realtà di ciascuno dei due codici, dei due contesti culturali, nella prospettiva di creare un "terzo spazio" che non appartiene ai due codici precedenti, ma che ne partecipa criticamente. L’aspetto interessante di questa nuova dimensione è dato dalla capacità e possibilità di passare da un codice all’altro, e di potersi porre anche al di fuori dei due. E’ questa la dimensione interculturale vera e propria che pone al centro del quadro il concetto di mobilità ed esperienza, senza rinunciare alle proprie sicurezze, ma senza rigidità pregiudiziali, attenti ai processi storici concreti, senza cadere in tradizionalismi conservatori, ma anche senza lasciarsi abbagliare da modernismi omologanti. Questo processo richiede quindi capacità di adattamento del soggetto e di un gruppo. Ma come possiamo definire "l’adattamento" ? Il termine viene dal latino adaptare formato da "ad" che significa "verso" e da "aptus" che significa "divenire capace di... ; compatibile con...". C’è quindi una doppia dimensione nella possibile interpretazione del termine adattamento : una negativa ed una positiva. Quella negativa interpreta l’adattamento in termini di "integrazione assimilativa" che riempie svuotando, obbligando una cultura a scomparire, a trasformarsi in maniera irreversibile, senza soluzioni di continuità. Quella positiva, rifacendosi a Piaget, vede l’adattamento come il risultato dell’equilibrio progressivo di due processi : l’assimilazione e l’accomodamento, che non annulla i punti di riferimento di una data cultura , ma li integra in un contesto che si rinnova proprio grazie agli apporti nuovi di quella cultura. Ma c’è un altro concetto da chiarire : quello della "distinzione". Vediamo ancora l’etimologia : viene dal latino "distinguere" dove "stinguere" significa "pungere, segnare, marcare", quindi sottolineare una divesità. Anche qui ci sono due possibili interpretazioni. Quella negativa che rinvia aa una idea di segregazione, separazione, isolamento ed una positiva che si ricollega ad una idea di differenziazione che tiene conto della complessità dell’altro evitando gli schematismi e le rappresentazioni stereotipate. Ci sono, come scrive Demetrio, delle premesse psicologiche da costruire che vanno ad investire nozioni fondamentali come quella di "tempo", "spazio,"identità, "educazione". A questo livello occorre giustamente passare da un’atteggiamento monoculturale ad uno in terculturale che renda il pensiero dinamico e l’esperienza elastica Questo mutamento psicologico è collegato, poi, all’esigenza di uscire, specie noi laici, dall’insuficienza della ideologia della tolleranza. Troppo spesso si trasforma nella negazione delle reali differenze : si finge di non vedere le reali condizioni, sociali e storiche, che le hanno determinate. E si finisce per restare aggrappati al nobile quanto astratto principio illuminista secondo il quale "gli uomini sono tutti uguali". La sopportazione benevola, la solidarietà non basta : occorre entrare nelle ragioni profonde della diversità dell’altro, capirne la storia e le premesse per valorizzare i saperi di ciascuna cultura. Una operazione di questa natura ha una chiara direzione autoreferenziale e ci pone domande quali : "come mi sto rapprsentando l’altro ?", "Quanto di personale ed etnocentrico c’è nelle mie rappresentazioni ?", "Quali sono i miei pregiudizi e stereotipi ?", "Quale strategia devo attivare per far capire all’altro che lo ritengo mio simile ed al tempo stesso diverso da me ?". In questo senso ci sembra giusto parlare di "pedagogia dell’interazione" (Demetrio), piuttosto che di "Pedagogia dell’integrazione" per definire una prospettiva interculturale. Una pedagogia dell’interazione ci permette di rifiutare la tendenza alla biculturalità esclusiva e tollerante, di rifiutare la tendenza integrazionistica di tipo assimilativo e di aprirsi invece ad una pedagogia relazionale. "L’apprendimento interculturale poggia su forme di appredimento transcognitive ovvero sulla maggiore o minore capacità di locomozione da un atto cognitivo all’altro, da una forma mentis all’altra. Occorre educare alla transitività, alla mobilità cognitiva e relazionale". Fin ora, a quanto ci è dato vedere, hanno dominato nella nostra cultura occidentale tre modelli di "mobilità" culturale : 1) l’assimilazione che implica il ruolo passivo di una cultura di fronte ad un’altra che è dominante ed un giudizio di valore più o meno esplicito. 2) la segregazione culturale,secondo la quale ciascuna cultura si deve sviluppare separatamente e parallelamente secondo le proprie caratteristiche 3) la contaminazione culturale in virtù della quale le culture in contatto finiscono per mescolarsi ed arrivare ad una sintesi. Ma c’è un quarto modello : quello della "Integrazione pluralistica"che implica la coesistenza e l’esistenza di gruppi culturali diversi che generano una situazione in cui assimilazione, differenziazione, sintesi possono combinarsi secondo le esigenze reali, in un quadro di mobilità storicamente determinata dai soggetti coscientemente in gioco. E’ il più difficile, ma anche il più affascinante, proprio perchè contradditorio e destabilizzante. Specie per le certezze distruttive che stanno attraversando questi nostri tempi. Maj :12/06/2006
Auteur : ficemea |